LA PAROLA CHE IMPEDISCE: PROMESSI SPOSI, IX-X[1]

 

   Commentando l’Antigone di Hölderlin, Steiner ci ricorda che «Noi 'esperi' conosciamo la terribile ferita che le parole possono infliggere alla mente e all'anima, ma non abbiamo esperienza, se non metaforicamente, dell'immediatezza “atletica, plastica” (gli aggettivi sono di Hölderlin) della distruzione fisica provocata da un atto di parola; ed esemplifica con indubbia efficacia: «La maledizione di Teseo uccide letteralmente Ippolito. Gli enunciati oracolari e profetici dilaniano la carne umana»[2]. Abbiamo tuttavia già visto, citando Gorgia, il rovescio positivo della medaglia: se la parola è veleno, è anche medicina. Addirittura, come è noto e come è sotteso alla parte dantesca di questo saggio, «per la Rivelazione ebraico-cristiana la parola è innanzitutto la radice della creazione dove espleta una funzione 'ontologica'», in quanto «vince il nulla e crea l'essere»[3].

   Su questo fondamento si radica la convinzione manzoniana tanto della coessenzialità tra res e verba, tra pensiero e parola, quanto della «intrinseca moralità della lingua», affermata con chiarezza, ad esempio, nella seguente  importante riflessione del saggio sulla rivoluzione francese: «parole per rappresentare il costrutto, la sintesi d’una induzione sofistica non è facile trovarne di bell’e preparate nel linguaggio, che è stato lavorato dagli uomini per intendersi tra di loro, non per ingannarsi a vicenda» (RF, pp. 40-41). La valorizzazione di questa frase si deve a Nencioni, che ha indicato nella «concezione della  moralità  intrinseca della lingua uno degli aspetti più originali della teoria linguistica manzoniana»[4]. Non sarebbe difficile rintracciare anche in anni precedenti analoghe manifestazioni di questa fiducia nel legame tra linguaggio e verità, come quella consegnata alla seconda redazione dell’incompiuto libro sulla lingua italiana: «ma le cose non si lasciano far forza dalle parole, se non fino ad un certo segno» (SLI, p. 130), così simile ad un’altra che può sintetizzare il metodo con cui Manzoni ricostruisce le vicende che precedettero e provocarono la rivoluzione francese: «Qualche volta le parole sono più ritrose e intrattabili delle cose» (RF, pp. 40-41). Lo avevano sperimentato, nel proprio quotidiano, Renzo  e Agnese, in quella loro corrispondenza tanto intralciata dalla necessità di non chiamare le cose con il loro nome (PS, XXVII).

   La fiducia nella moralità del linguaggio – e, quindi della letteratura come la intende Manzoni: «arte di dire, cioè di pensare bene, di rinvenire col mezzo del linguaggio, ciò che è di più vero, di più efficace, di più aggradevole in ogni soggetto, che si prenda a considerare o a trattare» (Lettere, I, 665) - è il conseguente risultato di una riflessione protratta, che era partita da una – pur sempre meritoria, ma certamente meno originale – volontà di fedeltà al vero, espressa già molti anni prima, ad esempio nell’[Autoritratto], dove l’autore vanta una «Lingua […] che il ver favella apertamente, o tace» (5-6) e nei versi all’Imbonati, con il precetto «il santo Vero / mai non tradir» (213-14; in aperta opposizione al malcostume imperante in tempi – quelli di Manzoni, non certo i nostri - «dove il pensier da la parola è sempre / altro»: 123-24). Questa precoce ricerca di una scrittura rivelativa del vero conosce una tappa decisiva negli Inni sacri, che l’autore scrive ricavando le proprie parole dalle parole della rivelazione: costituendosi  come una sorta di riscrittura – riscrittura fedele – di una Parola che è verità, le poesie manzoniane possono a loro volta testimoniare il vero. La parola di Dio – che è, innanzitutto, il Verbo, e che è all’origine delle parole degli uomini – garantisce dunque dell’esistenza di un legame originario tra parola e verità: si tratta tuttavia di un legame che inevitabilmente  si allenta o si vela e che va quindi ogni volta rafforzato e riscoperto[5]. La parola, dunque, non è data all’uomo per nasconderne il pensiero, come voleva un noto assioma di Voltaire, ma per rivelarlo e trasmetterlo: agli altri, ma ancora prima, quasi a titolo di verifica, a sé stessi, perché «Il mezzo, e l'unico mezzo che uno abbia di rappresentare uno stato dell'umanità, come tutto ciò che ci può essere di rappresentabile con la parola, è di trasmetterne il concetto quale è arrivato a formarselo, coi diversi gradi o di certezza o di probabilità che ha potuto scoprire nelle diverse cose, con le limitazioni, con le deficienze che ha trovato in esse, o piuttosto nella attualmente possibile cognizione di esse; è in somma di ripetere agli altri l'ultime e vittoriose parole che, nel momento più felice dell'osservazione, s'è trovato contento di poter dire a sé medesimo»[6]. Dato l’originario legame tra parola e verità, e l’inevitabilità della parola come strumento di comunicazione (infatti, «Quel est en effet l'instrument de l'autorité? avec quoi peut-on imposer des vérités aux autres? Belle demande: avec la parole, avec les langues, avec des mots»: OMF 635), ne consegue che per ottenere lo scopo di scoprire per sé la verità e di trasmetterla agli altri, occorre, innanzitutto e semplicemente, rimanere fedeli al linguaggio, usarlo correttamente ai suoi vari livelli: morfologico, grammaticale, sintattico, semantico, retorico, logico… Ecco il perché dei tanti «processi alle parole» (Dell’invenzione, in OMF 695 e 700) che Manzoni intenta ripetutamente nelle sue opere: perché l’attento esame del modo in cui gli autori (parlanti o scriventi che siano) usano le parole consente di cogliere il punto in cui l’errore – o la colpa, cioè la menzogna - smaglia lo sfondo originario di verità che esse inevitabilmente costruiscono. Infatti, «se l'errore non si cerca nelle parole, per verità non saprei dove», scrive Manzoni nella lettera a Cesari, variando e sintetizzando concetti già usati nella Prefazione al Carmagnola («Ma perché queste riflessioni su due parole? Perché nelle due parole appunto sta l'errore. Quando s'abbraccia un'opinione storta, si usa per lo più spiegarla con frasi metaforiche e ambigue, vere in un senso e false in un altro; perché la frase chiara svelerebbe la contraddizione [cioè, direbbe la verità, foss’anche solo quella della propria contraddittorietà]. E a voler mettere in chiaro l'erroneità della opinione, bisogna indicare dove sta l'equivoco»)[7].

   A questa trama di riflessione dobbiamo accostarne un’altra, che negli scritti di Manzoni inizialmente sembra scorrere parallela alla prima, ma che poi si intreccerà inestricabilmente con essa: è il grande tema dell’efficacia della parola, di qualunque parola pronunciata dagli uomini. Anche questo tema è presente fin dall’età giovanile, visto che lo cogliamo già nella lettera a Fauriel del 1806, in cui Manzoni lamenta che la «distanza tra la lingua parlata e la scritta» impedisce agli scrittori di raggiungere «l’effetto» che «si propongono, d’erudire cioè la moltitudine, di farla invaghire del bello e dell’utile, e di rendere in questo modo le cose un po’ più come dovrebbono essere»; di qui la scarsa efficacia dei pur «bei versi del Giorno» (Lettere, I, p. 19). L’attenzione manzoniana a quella che oggi si chiamerebbe la pragmalinguistica non è certo atteggiamento originale, in quanto va inserita nella «singolare consapevolezza» che di questo aspetto del linguaggio ebbe la «cultura […] italiana fra Illuminismo, Restaurazione e rivoluzione borghese»[8]; originale, semmai, è il fondamento metafisico che essa troverà qualche anno dopo nell’efficacia della parola divina, che si riverbera anche sulla parola umana, come sì è detto all’inizio.

    L’efficacia delle parole è una diretta conseguenza del loro rapporto con la verità, come  testimonia un passo del Fermo e Lucia poi espunto: commentando il mancato adempimento, da parte di Ferrer, della promessa, ripetutamente fatta alla folla, di processare il vicario, il narratore scrive: «Invece si mentì, le prevenzioni della moltitudine non furono tolte, le fu dato per sopra più il rancore d'essere stata ingannata, e col fare di questo mezzo di salute un inganno, si tolse per altre occasioni simili al mezzo la sua efficacia, la quale consisteva tutta nella fede data alle parole» (FL, III, vii, 541). L’effetto delle parole (quando promettono, come in questo caso, ma anche quando minacciano o affermano o negano, etc: insomma, ogni volta che vengono dette) si fonda sulla fiducia riposta in esse da una intera comunità, fiducia collettiva che è insieme l’effetto e la causa della costitutiva verità della parola.

   Anche in questo caso, si possono facilmente trovare altri brani in cui Manzoni affermi con chiarezza il potere della parola di produrre effetti, e lo affermi sia in senso generale sia con riferimento a casi particolari. Ricordo l’esaltazione della potente parola di Rousseau («una parola inebriante, una parola che porta il turbamento dell'entusiasmo anche negli spiriti per cui nulla è serio fuorché il divertimento, una parola che va a cercare i sentimenti i più universali ed intimi anche nei cuori dov'erano più soffocati dalle passioni del lusso e della vanità, una parola che ha potuto per qualche momento rompere delle abitudini inveterate di indifferenza, una parola più forte del ridicolo, una parola che strascina e che comanda, che persuade il vero dimenticato o contraddetto dalla sapienza del bell'ingegno, e il falso contro cui si rivolta la ragione»: MC., cap. XVII), da accostare al rimpianto di non possederne una altrettanto efficace consegnato alla versione 1823 della lettera sul romanticismo («E certo, non mi limiterei ad accennare su di ciò confidenzialmente, e superficialmente poche idee a Lei, che non ne ha bisogno, se non mi sentissi troppo lontano da quella autorità, e da quella potenza di parole, senza le quali si guastano le migliori cause, si prolunga la vita, e si aumenta l’attività dell’errore, che si vorrebbe distruggere»). Ma dobbiamo anche rileggere la famosa e indignata contestazione del luogo comune che vuole la parola dei poeti incapace di produrre risultati pratici, e quindi irresponsabile, cioè sciolta da «cette responsabilité qui pèse sur toute parole»[9]: «E non istate a dire, per amore del cielo, che i poeti non producono quei tristi effetti, perché le parole loro non si prendono sul sodo, non si cerca in esse una norma di pensare, ma un mero diletto. Non lo dite, per riguardo ai poeti; poiché volendoli scolpare di pernizie, gli verreste a tacciar di scimunitaggine; ché ben dovrebber essere riguardati come scimuniti, se la parola a cui tutti gli uomini proccurano di dare un valore, con la quale tutti intendano di produrre un effetto, non dovesse significar nulla adoperata da essi. Non lo dite, per riguardo a voi stessi; poiché mostrandovi capaci di ricever diletto dalle parole, senza che il senso v'abbia parte, riconoscereste in voi una facoltà troppo singolare» (Appendice storica su la Colonna infame, in FL, p. 885). Anche il narratore dei Promessi sposi condivide questa convinzione, tanto da trasmetterla al primo uomo della sua storia, cioè a Renzo, il quale, dopo aver sentito le critiche dei nuovi compaesani alla sua Lucia, «s’accorse che le parole fanno un effetto in bocca, e un altro negli orecchi; e prese un po’ più d’abitudine di ascoltar di dentro le sue, prima di proferirle» (PS, xxxviii, p. 747).

 

   Eppure, in tanti casi, nei Promessi sposi il potere delle parole pare indipendente dal loro originario e intrinseco legame con la verità: ce lo dimostra, più che l’accenno, tutto sommato neutro, al cardinal di Richelieu, il quale «aveva proposto e persuaso, con la sua potente parola […] che si soccorresse efficacemente il duca di Nevers» (PS, xxviii; con il controcanto ironico, subito dopo della impotente parola di Achillini,  e la conseguente opposizione tra il politico e il poeta), il caso esemplare di un altro cardinale, Federigo. Esemplare perché, dato per presupposto che «la vita è il paragone delle parole» (PS, xxii, p. 417), in Federigo si verifica tra esse una rara concordia, che viene immediatamente notata da tutti, anche da chi ne ascolta per la prima volta una predica. Nel suo resoconto alla famiglia, il sarto commenta infatti: «E non son belle parole; perché si sa che anche lui vive da pover uomo, e si leva il pane di bocca per darlo agli affamati; quando potrebbe far vita scelta, meglio di chi si sia. Ah! allora un uomo dà soddisfazione, a sentirlo discorrere; non come tant’altri: fate quel che dico, e non fate quel che fo» (PS, xxiv, p. 461).

   Gli effetti dell’eloquenza del cardinale ci sono mostrati dal narratore attraverso il gesto caritativo del sarto nei confronti di Maria vedova, evidente exemplum dell’efficacia della predica di Federigo e di una parola che, una volta di più, provoca al movimento[10]. In altre occasioni, tuttavia, la pur potente parola del cardinale non produce i risultati che si prefigge: non dico quando cerca – inutilmente, appunto – di convincere i decurioni a rinunciare alla processione solenne con il corpo di san Carlo (PS, xxxii, pp. 604-605), ché tale fallimento pare dovuto ad un difetto di convinzione interiore, o quanto meno ad una «debolezza della volontà», di Federigo (ivi, p. 608); ma, soprattutto, nelle due occasioni in cui il narratore mostra in atto l’eloquenza del cardinale, cedendo a lui la parola: mi riferisco, come è ovvio, al colloquio con l’innominato e a quello con don Abbondio. Nel primo, i gesti e le parole di Federigo portano certamente in chiaro e completano il processo di conversione dell’innominato, come testimoniano le lacrime di quest’ultimo, chiaro segno dell’efficacia di un dire che provoca la conversione (secondo insegna Agostino nel De doctrina christiana: «Non tamen egisse aliquid me putavi, cum eos audirem acclamantes, sed cum flentes viderem. Acclamationisbus quippe se doceri et delectari, flecti autem lacrimis indicabant [...]. Sunt et alia multa experimenta quibus didicimus homines, quid in eis fecerit sapientis granditas dictionis, non clamore potius quam gemitu, aliquando etiam lacrimis, postremo vitae mutatione mostrasse»[11]); ma, altrettanto certamente, non fanno che concludere un percorso avviato dalle ben più deboli e povere parole di Lucia. È una sua frase che potrebbe apparire tutto sommato un po’ convenzionale - «Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!» - che innesca nell’innominato, come ha ben notato Prini, un processo di ‘riscoperta’ del vero significato di  parole ormai dimenticate; in tal modo, attraverso il personaggio Lucia il poeta adempie al suo «compito […] di evocare dall’oblio i sensi della nostra esistenza, che giacciono nascosti o repressi nell’infinita ricchezza del linguaggio di cui siamo destinatari»[12].

   Convertire don Abbondio è tutt’altra faccenda, poiché la condivisione degli endoxa tra il cardinale e il curato è solo apparente, tanto è vero che con lui l’eloquenza di Federigo deve dispiegarsi con ancor maggiore maestria, toccando i toni del rimprovero e dell’incoraggiamento, della superiorità gerarchica e della fratellanza in Cristo, del dovere sacerdotale e dell’amore per i parrocchiani. Ma la resistenza di don Abbondio è pervicace, tanto da obbligare Federigo a ripetere le medesime parole e i medesimi concetti: «E ad alta voce, disse “ho mancato; capisco che ho mancato; ma cosa dovevo fare in un frangente di quella sorte?” “E ancor lo domandate? E non ve l’ho detto? E dovevo dirvelo?”» (PS, xxvi, p. 494). Non inganni quel minimo risultato che le successive parole di Federigo paiono infine ottenere («Era, se ci si lascia passare questo paragone, come lo stoppino umido e ammaccato d’una candela, che presentato  alla fiamma d’una gran torcia, da principio fuma, schizza, scoppietta, non ne vuol saper nulla; ma alla fine s’accende e, bene o male, brucia», ivi, p. 498): si tratta d’una resipiscenza solo momentanea, come confermano lo stesso dubbio finale di Federigo («Piaccia a Dio che le parole le quali ho pur dovuto usare con voi, servano a voi e a me»: M 499) e la clausola del colloquio - «Così detto, si mosse; e don Abbondio gli andò dietro» (ivi, p. 499) -, tanto simile a quella del primo canto della Commedia e avvalorata dalla vignetta di Gonin, che mostra un don Abbondio accondiscendente, ma non persuaso. La parola del cardinale, pur essendo radicata in quella divina («“Rimproveratemi liberamente le mie debolezze; e allora le parole acquisteranno più valore nella mia bocca, perché sentirete più vivamente che non son mie, ma di Chi può dare a voi e a me la forza necessaria per far ciò che prescrivono”»: ivi, p. 497), non riesce a conseguire né il più modesto risultato  di liberare don Abbondio dalla paura né quello di convertirlo, non dico una volta per tutte (sappiamo che, alla fine del romanzo, egli rifiuta ancora, come aveva fatto all’inizio, di sposare Renzo e Lucia finché non è più che certo della morte di don Rodrigo), ma neppure per un breve momento, come prova anche l’assenza del pianto: «Si sarebbe apertamente accusato, avrebbe pianto se non fosse stato il pensiero di don Rodrigo» (ivi, p. 498), quel don Rodrigo che possiede, rispetto al cardinale, il non trascurabile vantaggio di adoperare schioppo e spada e bravi (ivi, p. 495). Non va dimenticato che, come accade in ogni relazione dialogica, la responsabilità del fallimento delle parole di Federigo è anche di don Abbondio il quale non pronuncia nemmeno quel miserere (o una sua variante purchessia) che segna l’inizio della salvezza di Dante; ed è proprio il cardinale a stigmatizzare la volontà di silenzio del curato, cogliendo in essa la prima prova della sua scelta di campo in favore di don Rodrigo. Il silenzio di don Abbondio, che è certamente provocato dalla paura, ottiene tuttavia l’effetto di rafforzarla, dando vita ad un circolo vizioso, poiché, come gli ricorda Federigo in un passo del Fermo poi espunto, «la paura, come le altre passioni, ad ogni volta che le si concede qualche cosa, domanda qualche cosa di più» (FL, III, i).

 

   Il principe padre non contempla nemmeno l’ipotesi che la propria parola, unita ad una sapiente strategia di persuasione occulta, possa risultare inefficace ai fini che si propone: nel caso che qui il narratore mette a tema, quello di collocare Gertrude al convento, e di collocarvela dietro richiesta, almeno formale, di lei. Risultato pienamente conseguito, come è noto, attraverso un percorso le cui tappe vale la pena di ripercorrere, anche se fosse per l’ennesima volta, poiché quella che è stata definita la tragedia della volontà[13] viene narrata con una acuta attenzione ai rapporti che i personaggi intrattengono con la parola.  

   Nella vicenda di Gertrude, il personaggio che per eccellenza detiene il potere della parola è appunto il principe padre, grazie anzitutto al doppio ruolo, sociale e famigliare, che riveste. Il narratore mette subito l’accento su questa caratteristica, sottolineando la superiore efficacia dei suoi discorsi rispetto a quelli altrui: «Tutte le parole di questo genere stampavano nel cervello della fanciullina l’idea che già lei doveva essere monaca; ma quelle che venivan dalla bocca del padre, facevan più effetto di tutte l’altre insieme» (PS, IX, p. 177).

   Le parole del principe producono dunque l’effetto di «stampare» nella mente di Gertrude l’idea della ‘naturalità’ del suo destino di monaca; e alleate a quelle con cui alcune delle monache le trasmettono una religione mal intesa, fanno anche nascere in Gertrude il senso di colpa: «Privata così della sua essenza, non era più la religione, ma una larva come l’altre. Negli intervalli in cui questa larva prendeva il primo posto, e grandeggiava nella fantasia di Gertrude, l’infelice, sopraffatta da terrori confusi, e compresa da una confusa idea di doveri, s’immaginava che la sua ripugnanza al chiostro, e la resistenza all’insinuazioni de’ suoi maggiori, nella scelta dello stato, fossero una colpa; e prometteva in cuor suo d’espiarla, chiudendosi volontariamente nel chiostro» (PS, IX, p. 181). Va notato, infatti, che il senso di colpa che tormenta incessantemente Gertrude non nasce in seguito alla tresca con il paggio, come di solito si dice[14], confortati anche da una più esplicita frase dello stesso narratore («Il terrore di Gertrude, al rumore de’ passi di lui, non si può descrivere né immaginare: era quel padre, era irritato, e lei si sentiva colpevole», PS, IX, pp. 185): quest’ultimo avvenimento, infatti, ottiene certamente l’effetto di rafforzare un senso di colpa che è stato indotto prima, nel passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza, ma soprattutto ha il compito di dargli un contenuto preciso e determinato. Ciò significa che il rapporto causale tra l’azione e il senso di colpa va rovesciato, come aveva già segnalato Freud studiando il fenomeno: Gertrude non si sente colpevole per la tresca con il paggio, bensì le dà avvio anche perché si sente colpevole: non sapendo bene di che cosa, compie un gesto che riempia di contenuti quel senso di colpa altrimenti immotivato e la renda effettivamente e motivatamente colpevole[15]. Come le parole del padre la prefigurano se non accetterà, e di buon grado, la monacazione. Anche in questo senso, le parole del padre assumono le caratteristiche di un vero e proprio discorso di potere, almeno nell’efficace definizione che ne dà Roland Barthes: «ogni discorso che genera la colpa, e di conseguenza la colpevolezza, di colui che lo riceve»[16].

   Gertrude non ha a che fare solo con le parole del padre e delle monache sue complici: ci sono anche i discorsi delle compagne d’educazione in monastero. Le loro frasi, per quanto meno autoritarie – o, forse, proprio per questo – non rimangono senza effetti, né lo potrebbero, come ormai sappiamo, tanto è vero che aprono a Gertrude uno spazio di libertà nel quale può svilupparsi «l’idea della necessità del suo consenso» (X, p. 200) e nel quale matura la decisione di scrivere al padre la lettera di ritrattazione. La reazione del principe è coerente con la strategia impostata fin dall’inizio del racconto, quando egli nega a Gertrude il diritto di parola, perfino nell’elementare e originaria forma del sì e del no: «La nostra infelice era ancor nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi se sarebbe un monaco o  una monaca; decisione per la quale faceva bisogno non il suo consenso, ma la sua presenza»[17] (PS, IX, p. 176). Allo stesso modo, la lettera della figlia resta senza risposta, come se non fosse stata scritta: «Gertrude stava con grand’ansietà, aspettando una risposta che non venne mai»; e la madre badessa, facendo «un cenno oscuro» a quello scritto, lo trasforma in «un fallo ch’ella dovea aver commesso», con parole che accentuano il senso di colpa e, una volta di più, inibiscono quelle di Gertrude: infatti, «La giovinetta intese, e non osò domandar più in là» (IX, p. 182).  

   Alle tacite – non a caso tacite, come vedremo - direttive del principe si uniforma il resto della famiglia, che tiene Gertrude segregata dalla parola: «I giorni passavano senza che il padre né altri le parlasse della supplica, né della ritrattazione, senza che le venisse fatta proposta nessuna, né con carezze, né con minacce […]. Tra loro tre pareva che regnasse una gran confidenza, la quale rendeva più sensibile e più doloroso l’abbandono in cui era lasciata Gertrude. Nessuno le rivolgeva il discorso; e quando essa arrischiava timidamente qualche parola, che non fosse per cosa necessaria, o non attaccava, o veniva corrisposta con uno sguardo distratto, o sprezzante, o severo. […] Se implorava un po’ d’amore, si sentiva subito toccare, in maniera indiretta, ma chiara, quel tasto della scelta dello stato. […] Allora Gertrude […] era costretta di tirarsi indietro […], di rimettersi da sé al suo posto di scomunicata; e per di più, vi rimaneva con una certa apparenza del torto» (PS, IX, p. 183). Né la situazione cambierà quando Gertrude avrà mosso passi ormai decisivi nella strada tracciatale dal padre: infatti, dopo averla istruita su come presentare la domanda alla badessa, «Senza aspettar risposta, il principe si mosse» (PS, X, p. 198; corsivo mio). Una tale privazione linguistica, che costituisce il segno tangibile della privazione degli affetti, ha ovviamente delle conseguenze sulle stesse parole di Gertrude, che non sono pressoché mai autonome, ma eco e ripetizione di quelle insufflatele dal padre o da altri.

   La sua prima iniziativa di parola è la supplica al vicario, la quale però è «trascritta» (cioè, ricopiata) e «sottoscritta» dietro istigazione delle monache; la seconda è la lettera di ritrattazione al padre, sul cui contenuto il narratore non fornisce nessun’altra informazione, preferendo soffermarsi sulle modalità della stesura: essa «fu concertata fra tre  o quattro confidenti», concetto rinforzato dall’illustrazione di Gonin, che mostra con chiarezza una Gertrude che scrive sotto dettatura altrui. Anche sulla lettera al paggio cade l’interdetto del narratore («una carta, sulla quale avrebbe fatto meglio a non scriver nulla»: PS, , IX, 185), a sottolineare, ancora una volta, che si tratta di parole che non provengono dall’esperienza di Gertrude, ma che sono dettate dalle «fantasie» in cui l’adolescente aveva cominciato a rifugiarsi in monastero (PS, IX, p. 180) e in base alle quali ha interpretato il comportamento del ragazzo («Il contegno di quel ragazzotto era ciò che Gertrude aveva fino allora visto di più somigliante a quell’ordine di cose tanto contemplato nella sua immaginativa, al contegno di quelle sue creature ideali»: PS, IX, pp. 184-5). Il narratore sembra diffondersi maggiormente sull’ultima delle quattro lettere di Gertrude; in realtà, anche in questo caso insiste, più che sui contenuti (richiesta di perdono) sui sentimenti che la animano, ancora una volta contraddittori («entusiasmo» e «abbattimento», «afflizione» e «speranza», rassegnazione alla volontà paterna): anche questa lettera non dà parola ad un progetto di Gertrude, ma rivela la sua subordinazione al senso di colpa e al desiderio di vendetta nei confronti della carceriera.

   Fin qui, la privazione linguistica di cui Gertrude è vittima è resa dal narratore con la rinuncia a riportarne, direttamente o indirettamente, le parole: in questo vuoto si insediano parole che non sono di Gertrude e il cui contenuto è indicato approssimativamente. Si tratta di una accorta preparazione ai due casi esemplari che seguiranno, in due momenti decisivi, e il secondo irreversibilmente decisivo. Al momento di formulare alla badessa la supplica per la propria ammissione in convento, Gertrude ha una esitazione e cerca «una risposta qualunque», purché «diversa da quelle che le era stata dettata» dal padre (la xilografia di p. 197, che mostra il padre mentre fornisce a Gertrude le istruzioni per la riposta, va accostata a quelle di p. 177, per il medesimo atteggiamento di sottomissione della fanciulla, e di p. 182, in cui Gertrude è ugualmente passiva nei confronti dei suggerimenti delle compagne): ma la «paura» che le provoca la «faccia» del padre la coarta a ripetere, pressoché alla lettera le parole già suggeritele da lui: «son qui a chiedere d’essere ammessa a vestir l’abito religioso, in questo monastero, dove sono stata allevata così amorevolmente» (X, p. 199; il padre aveva detto: «potete rispondere che chiedete d’essere ammessa a vestir l’abito in quel monastero, dove siete stata educata così amorevolmente, dove avete ricevute tante finezze»: PS, X, p. 197). Il secondo passo decisivo è il colloquio finale con il vicario: quando egli le chiede, approfondendo la sua indagine quel tanto che è richiesto dalle regole, «quale è il motivo principale, che la induce a farsi monaca», Gertrude formula una risposta duplice - «il motivo […] è di servire a Dio, e di fuggire i pericoli del mondo» - la cui seconda parte sintetizza e riproduce l’ammonimento del padre dopo la scoperta del biglietto al paggio: «ché essa doveva vedere, in questo tristo accidente, come un avviso che la vita del secolo era troppo piena di pericoli per lei» (PS, IX, pp. 190-91)[18].

   Alla luce di queste osservazioni, l’ira sottesa al rimprovero della Signora ad Agnese - «State zitta voi: già lo so che i parenti hanno sempre una risposta da dare in nome de’ loro figliuoli!» PS, IX, p. 174) – diventa ancor più significativa, rivolta com’è contro sé stessa, oltre che contro il padre: poiché il principe, rigorosamente parlando, non ha mai risposto in nome di Gertrude, ma, spossessandola del linguaggio, è riuscito nella ben più difficile impresa di far sì che Gertrude formulasse le proprie risposte ripetendo le sue parole. Fino al plagio definitivo, in cui Gertrude chiede spontaneamente ciò che il padre vuole: «Lei medesima, stanca di quel lungo strazio, chiese allora d’entrar più presto che fosse possibile, nel monastero». «Fu dunque fatta la sua volontà», aggiunge il narratore. La frase, ricalcata sull’affermazione di Cristo nell’orto degli ulivi (Mt 26,42; Lc 22,42) e nel Padre nostro (Mt 6,10), appartiene al padre, divinità maligna che, lungi dall’offrire il proprio figlio in sacrificio definitivo per gli uomini, esige il sacrificio della figlia, per conservare quel patrimonio con il quale il principe ha finito riduttivamente per identificarsi.

    Allo stesso modo, la vanteria un po’ vacua del padre guardiano, il quale, parendogli di aver dato prova di grande abilità diplomatica nell’incontro con Gertrude, commenta tra sé: «Gran cervellino che è questa signora! […] Ma chi la sa prendere per il suo verso, le fa far ciò che vuole» (PS, IX, p. 175) si carica di tragica ironia, significando molto più di quanto il personaggio non creda. Dobbiamo innanzitutto notare, infatti, che Gertrude fa sempre quel che vogliono gli altri (sia pure temporaneamente, cioè, finché non subentri un’altra e più imperiosa volontà): fa ora quello che vuole il padre guardiano, come ha fatto quel che volevano le monache (sottoscrivendo la supplica), come ha fatto quel che suggerivano le compagne (scrivendo la ritrattazione al padre), come ha fatto quel che voleva il principe; come farà quel che vorrà Egidio e, infine e in ultima analisi, a riprova della sua natura eterodiretta, quello che vorrà il delitto («Il delitto è un padrone rigido e inflessibile, contro cui non divien forte se non chi se ne ribella interamente. A questo Gertrude non voleva risolversi; e ubbidì»: PS, XX, p. 383)[19].  Ma va anche notato, in secondo luogo, che il narratore filtra queste azioni di Gertrude attraverso le proprie parole: Gertrude risponde, promette, acconsente. Sono tutti verbi che Austin chiamerebbe performativi, cioè che non si limitano a dire qualche cosa, ma che anche fanno qualche cosa. Le parole di Gertrude – proprie o altrui, libere o coatte che siano – hanno una forza illocutoria che le rende già delle azioni che la avviano al chiostro[20]. Nel caso di Gertrude, insomma, dire è fare, e sotto il «far» del padre guardiano si deve leggere quel «dire» che ne è all’origine (a rigor di termini, infatti, Gertrude, prima di fare quello che vuole il padre guardiano, dice quello che lui vuole: e in questo dire è già compreso il fare).

   Credo si tratti di un passaggio importante, perché conferma, dalla parte della vittima, l’importanza della parola, e perché collega il tema della volontà di Gertrude a quello della parola: l’impossibilità, per Gertrude, di volere interamente e fino in fondo non sarà una conseguenza della impossibilità di pronunciare parole proprie in cui si trova e di cui abbiamo visto alcuni esempi?

 

   Per completare il quadro della parola di potere del principe, occorre inserire un altro elemento in stretto rapporto con essa, come abbiamo visto leggendo i primi due canti della Commedia, vale a dire la paura. La paura di Gertrude nei confronti del padre costituisce il fondale oscuro su cui si staglia tutta la vicenda, toccando l’apice nel «terrore» provato dopo la scoperta della lettera al paggio. Il capitolo X ospita al suo inizio la prima parola in discorso diretto di Gertrude: «Perdono!»: quasi una replica del «Miserere» con cui Dante – anche in quel caso è la prima parola del personaggio – si rivolge a Virgilio. Ma qui finiscono le analogie, perché l’atteggiamento dei rispettivi interlocutori è totalmente diverso: mentre la parola di Virgilio libera Dante dalla paura, quella del padre la alimenta a bella posta nella figlia, intrecciandola ancor più strettamente al senso di colpa e ottenendo il risultato di portarla a pronunciare il successivo «Ah sì»: che non ha certamente il valore estensivo che il padre le attribuisce, ma che costituisce tuttavia la smentita del proponimento fatto da Gertrude all’uscita dal convento: «non si tratta che di non dire un altro sì; e non lo dirò» (PS, IX, p. 183). 

   Il culmine della funzione inibitoria che la paura riveste nei confronti della parola si manifesta al momento decisivo della domanda di ammissione, quando Gertrude si trova «al punto di proferir le parole che dovevano decidere quasi irrevocabilmente del suo destino» (X, p. 198). La ricerca di «una risposta qualunque, diversa da quella che le era stata dettata» - cioè, di una parola libera – è impedita dalla paura: «alzato lo sguardo alla faccia del padre, quasi a esperimentar le sue forze, scorse su quella una inquietudine così cupa, un’impazienza così minaccevole, che, risoluta per paura» ripete la formula inculcatele dal padre (PS, X 199).

   Eppure, anche il potere di questo «eroe maligno della parola»[21] non è illimitato. Colui che incute paura anche, se non soprattutto, tramite i propri discorsi, ha paura del linguaggio: più esattamente, della verità che la parola mette in scena. Ne cogliamo la prova manifesta durante il colloquio, tanto breve quanto imbarazzato, con la badessa. Se ai due interlocutori «pesa di rimaner lì testa testa» è perché le parole che la badessa è costretta a pronunciare - per obbedire alle regole – dicono la verità sul sopruso che i due stanno compiendo. Le parole, a volte, lo abbiamo già sentito da Manzoni, sono più ritrose e più intrattabili delle cose (cfr. infra); a volte, succede addirittura che «il linguaggio della verità» esca «arguto e profondo dalla bocca di chi voleva contraffarlo»[22]. È quello che capita quando il principe, dopo aver inoculato a Gertrude la risposta da dare alla badessa aggiunge una precisazione di per sé non richiesta (quanto dire, una denegazione): «Dite quelle poche parole, con un fare sciolto: che non s’avesse a dire che v’hanno imboccata, e che non sapete parlare da voi». Appunto: Gertrude viene continuamente ‘imboccata’ in quanto non sa parlare da sé. Quando si vuole mentire, bisogna avere paura delle parole: ecco perché il narratore segnala, fin dal principio, che «nessuno disse mai direttamente [a Gertrude]: tu devi farti monaca. Era un’idea sottintesa». L’intervento del narratore, al solito, non va sottovalutato, nemmeno nella frase conclusiva: dalla lettera a Cousin sappiamo, infatti, che lo svelamento dei sottintesi coincide nientemeno che con la ricerca filosofica  («l’étude de la philosophie n’est autre chose, n’est rien moins que l’étude de ces sous-entendus si peu étudiés et si continuellement, si inévitablement employés»[23]). La decisione dei genitori di non rivelare il loro intento serve a rendere più difficile il rifiuto di Gertrude, poiché la presa di coscienza della loro reale richiesta dovrebbe passare attraverso una indagine ‘filosofica’ superiore alle forze della fanciulla; ma funziona anche come alibi, poiché evita al principe e ai suoi complici il confronto diretto con la verità rivelata dalle parole. Dare veste linguistica all’idea sottintesa, pronunciare la frase taciuta (ma esplicitata dal narratore, che può farsi filosofo, a differenza di Gertrude) significherebbe esporsi alla verità della sopraffazione che quella frase contiene e rivela: vogliamo che tu ti faccia monaca.

   Il potere del principe si manifesta dunque, innanzitutto, tramite una parola di potere che tesse una rete di paure e  di sensi di colpa che hanno la prima ricaduta e la prima manifestazione nella impossibilità, per Gertrude, di pronunciare una parola libera: si deve ritenere che lei non sapesse pronunciare nemmeno quel “no” che è tra le primissime parole che i bambini imparano. Quanto ciò abbia influenza sulla libertà del volere ho già suggerito; ma non intendo, con questo, suggerire che il narratore neghi a Gertrude l’esercizio del libero arbitrio: se la ragazza si trova di fronte – anzi, sottoposta – a un padre-dio che le nega, ancora prima della nascita, perfino l’elementare e però originaria scelta tra un sì e un no, tra consentire e dissentire, essa è però e anzitutto creatura di un Dio che incessantemente interpella l’uomo, sollecitandolo in ogni momento alla risposta.

   Commentando il famoso «La sventurata rispose», Raimondi e Bottoni opportunamente ricordano che rispondere sempre «implica una volizione, una responsabilità personale, quasi fosse un “decise di rispondere”, giacché la libertà è sempre risposta voluta a un’occasione»[24]. Le risonanze bibliche e le implicazioni teologiche del termine invitano a ripercorrerne l’uso in questi due capitoli, tanto più che esso li incornicia: dall’iniziale rimprovero rivolto ad Agnese, in cui la monaca sintetizza lapidariamente la propria vicenda («già lo so che i parenti hanno sempre una risposta da dare in nome de’ loro figliuoli!», PS, IX, p. 174), all’epigrafe che conclude il «processo di corruzione»[25] di Gertrude, inaugurandone una nuova, più terribile fase. Nella prima parte dell’anacronia (capitolo IX) il verbo è riferito a Gertrude in una sola occasione, che segnala l’assoluta mancanza di vero dialogo in cui si svolgono la sua infanzia e la sua adolescenza: Gertrude parlava con personaggi di sua fantasia «e si rispondeva in loro nome». (R 202). L’uso del termine si ispessisce significativamente, in progressione diretta con la maturazione di Gertrude, nel cap. X, dove figura per la prima volta in seguito alla prima (ed unica) domanda diretta (almeno dal punto di vista sintattico, ché dal punto di vista semantico è una domanda parziale, che copre molte affermazioni sottintese): «“Dite: volete che andiamo oggi o domani?” “Domani,” rispose, con voce fiacca, Gertrude”» (PS,  193). Risposta delle cui conseguenze Gertrude pare inconsapevole; non così alcune ore (ma poche righe) più tardi, quando l’atto e le parole si susseguono a ritmo incalzante - «la sposina ebbe da dire e da fare a rispondere a’ complimenti che le fioccavan da tutte le parti. Sentiva bene che ognuna delle sue risposte era come un'accettazione e una conferma» -, suscitando quindi l’interrogativo del personaggio a stesso e del narratore al suo lettore-giudice:  «ma come rispondere diversamente?» (PS, 193). Nelle intenzioni del personaggio, si tratta di una domanda retorica, in quanto contiene in sé la risposta e la giustificazione; ma è anche, secondo una prassi già sperimentata[26], una domanda che il narratore rivolge al lettore, ottenendo l’effetto contrario a quello cercato dal personaggio: non già di porre l’accento sulla inevitabilità di quel comportamento, ma di revocarne in dubbio l’ineluttabilità, suggerendo la possibilità di un atteggiamento diverso, di una «risposta» che non sia «accettazione e […] conferma».

   Gertrude, infatti, non è del tutto incapace di volontà; il suo libero arbitrio, per quanto fortemente condizionato, è tuttavia salvo. Tanto è vero che, al termine di quella stessa giornata, è ben capace di un atto di volontà, e di volontà maligna: la «rivalsa» sulla sua cameriera. Con questo gesto, Gertrude riproduce, per quanto può, la logica della sopraffazione di cui è vittima, diventando carnefice della cameriera, come il padre lo è di lei: primo esempio di una identificazione con l’aggressore che finirà per fare di Gertrude una vera e propria replica di suo padre.

   Durante la cerimonia della richiesta alla badessa, il termine compare di nuovo, ma il narratore lo riferisce non alle parole effettivamente pronunciate da Gertrude (visto che esse costituiscono, come ho già segnalato, una eco precisa di quelle suggerite dal padre), ma a quelle che la ragazza cerca e non trova, a quelle non dette perché non trovate: chiaro segnale che il narratore ritiene che le parole dette da Gertrude non costituiscano una «risposta» vera, nonostante il principe le qualifichi per tali, in un ennesimo tentativo di plagio («Potete rispondere che…», PS, X, 197; «le ripeté più volte la formola della risposta»: PS, X, 198).

   Il padre si comporta allo stesso modo prima del colloquio con il vicario («Se voi titubate nel rispondere…»; «restiam d’accordo che voi risponderete con franchezza»; «dopo aver suggerita qualche risposta all’interrogazioni più probabili» PS,  X, 203), ma la situazione è ben diversa – e ben diverso l’atteggiamento del narratore: infatti, già la prima battuta di Gertrude - «“Dica pure”» - gode dell’impegnativa didascalia «rispose Gertrude» (PS, X 204: quella pronunciata dalla ragazza va considerata, allora, non una frase anodina, ma la rivelazione della disponibilità ad un dialogo che sia realmente tale, fatto di vere domande e vere risposte. Nonostante l’atteggiamento parzialmente preconcetto del sacerdote, a Gertrude si offre finalmente l’opportunità di uno spazio in cui parlare liberamente, in cui poter finalmente formulare una «vera risposta»; tanto più che l’interrogante, a differenza del padre, formula domande dirette, chiedendo quindi risposte dirette. Ma, ancora una volta, la paura impedisce la parola: «La vera risposta a una tale domanda s’affacciò subito alla mente di Gertrude, con un’evidenza terribile. Per dare quella risposta, bisognava venire a una spiegazione, dire di che era stata minacciata, raccontare una storia… L’infelice rifuggì spaventata da questa idea; cercò in fretta un’altra risposta; ne trovò una sola che potesse liberarla presto e sicuramente da quel supplizio, la più contraria al vero» (PS, X, 204). Dalla «vera risposta», ancora possibile, ad un’«altra risposta, […] la più contraria al vero»: il narratore segue l’itinerario di Gertrude, riprendendo altre due volte il «rispose Gertrude» iniziale, che era ancora aperto tra verità e falsità, e trasformandolo nella manifestazione linguistica di una volontà di menzogna, che segna il passaggio di Gertrude dallo stato di vittima innocente a quello di complice del proprio persecutore: «rispose Gertrude, divenuta, dopo quel primo passo, più franca a mentire contro sé stessa» (PS,  X, 205); «rispose precipitosamente Gertrude». Nella prima di queste due didascalie il narratore riprende un termine già usato dal padre: «e restiam d’accordo che voi risponderete con franchezza, in maniera di non far nascer dubbi nella testa di quell’uomo dabbene» (PS, X, 203; corsivo mio); e anche, come ho segnalato, da Virgilio e da Dante (If ii …), ad indicare però la situazione opposta,  di una libertà conquistata attraverso la parola propria e altrui.

   A questo punto, il narratore può ormai togliere la parola al personaggio e riassumere il resto del dialogo ponendo l’accento sulla volontà di Gertrude di ingannare, espressa nella sue risposte: atti liberi in una situazione tutto sommato libera, nonostante la fondatezza dell’alibi che Gertrude si trova (PS, X, 205): «L’esaminatore fu prima stanco d’interrogare, che la sventurata di mentire» (PS, X, 205). Dopo tante risposte pervicacemente volte all’inganno («Gertrude era determinata d’ingannarlo»), il terreno è pronto per l’ultima risposta, quella ad Egidio, che è poi, «come il lettore può avere inteso», «il primo passo in una strada d’abominazione e di sangue» (PS, XX, 383).

   Il lettore si spazientirà forse, ma non si sorprenderà se lo trattengo ancora su questa famosa reticenza, e per due motivi. Il primo è segnalare che nel passaggio dal Fermo e Lucia ai Promessi sposi si inabissa, ma senza con questo scomparire, una caratteristica importante di Egidio, cioè la sua capacità di esercitare la sua seduzione infernale attraverso il linguaggio[27]: dunque, come il principe padre. In secondo luogo, che nel cap. XX il «rispondere» di Gertrude si trasforma in «dar retta»: «noi abbiamo riferito come la signora desse una volta retta alle sue parole» (PS, XX, 383). Variatio oltremodo significativa, perché in tal modo il narratore mette a contrasto, ancora una volta, i comportamenti opposti di Gertrude di Lucia, la quale, quando «don Rodrigo […] aveva cercato di trattenerla con chiacchiere, com’ella diceva, non punto belle» «senza dargli retta, aveva affrettato il passo e raggiunta la compagnia» (PS, III 48)[28].

   Insomma, rispondere è decisivo, per il bene e per il male: se n’era accorto un grande lettore di Manzoni, Giovanni Verga, che struttura la sua novella Tentazione attorno allo stesso snodo fondamentale[29].

 

   Fin qui ho esaminato il potere della parola, il suo uso e le sue conseguenze solo nei personaggi dei capp. IX e X, ed in particolare, come è ovvio, in colui che questo potere lo detiene e in colei che ne è la vittima, almeno inizialmente. Tocca ora esaminare quelle del narratore: non solo perché egli detiene, per statuto, un potere di parola difficilmente scalfibile, ma anche perché è evidente che la convinzione da lui più volte espressa, in interventi espliciti o  negli avvenimenti narrati, che le parole producano sempre un effetto, deve evidentemente valere anche per le parole che il narratore pronuncia, la cui ricaduta sul lettore egli non può dunque ignorare. Partiamo, ancora una volta, dalla celebre reticenza: essa coniuga arditamente, in un ossimoro concettuale non immediatamente percepibile ma pur tuttavia molto forte, il giudizio di responsabilità insito nel verbo con l’affermazione di irresponsabilità veicolata dall’aggettivo sostantivato. Scarpati ha efficacemente mostrato come, qualche anno prima, lavorando su Ermengarda, Manzoni si preoccupi di sottrarre «la nozione di “sventura” […] ad ogni accezione negativa»; e già Barberi Squarotti aveva individuato nel sintagma un esempio di quello stilema che egli chiama «compensazione metafisica»[30]. L’alta concentrazione di senso del sintagma ne fa una sorta di nucleo generativo che irradia, a ritroso, un testo la cui caratteristica parrebbe l’indecidibilità, almeno relativamente al punto della colpevolezza o innocenza di Gertrude. Bisogna pur segnalare, infatti, che se Gertrude (meglio: «La sventurata») risponde, ciò avviene perché Egidio «un giorno osò rivolgerle il discorso» (PS, X, 210). Osa, cioè, fare quello che i famigliari più stretti di Gertrude non avevano mai fatto, se non sub condicione (ma è chiaro che le frasi rivolte alla ragazza dopo la sua sottomissione non sono veri discorsi, non sono stimoli alla crescita della persona nella verità e nella libertà): in casa sua, infatti, «nessuno le rivolgeva il discorso», nemmeno quando «implorava un po’ d’amore». Privazione linguistica e privazione affettiva vanno di pari passo: è l’ontologico e perennemente frustrato bisogno di essere amata dal padre che trattiene Gertrude dal limitare la portata del suo «Ah sì» («Ma la sua [del principe] persuasione pareva così intera, la sua gioia così gelosa, la sua benignità così condizionata, che Gertrude non osò proferire una parola che potesse turbarle menomamente»: PS, X, 191)[31]; è questo stesso bisogno che si manifesta perfino (dico perfino con riguardo ai tempi e al contesto sociale) nei confronti dei servi («Gertrude […] avrebbe avuto di grazia che le facessero qualche dimostrazione d’affetto […], e scendeva anche a mendicarne» (PS, IX, 184), ricevendone in risposta l’identica «noncuranza manifesta». Ecco dunque che le parole rivoltele da Egidio possono essere interpretate da Gertrude come un’offerta d’amore. Non occorre spiegare quanto poco questo termine si attagli all’atteggiamento di Egidio; bisogna invece sottolineare la finezza di analisi psicologica del narratore, che aggiunge altre due motivazioni a quelle già influenti sulla risposta di Gertrude: la sua continua, e continuamente respinta, richiesta di amare e di essere amata, che infine si indirizza verso Egidio, l’unico che le rivolge la parola; e la sua ammirazione per chi, come Egidio, trova la sfrontatezza – ma, per Gertrude, si tratta di coraggio - di parlare in situazioni e con interlocutori che impongono il silenzio (si ricordino le molte occasioni in Gertrude tace per paura e la sottolineatura che ne fa il narratore, ripetendo per lei al negativo il verbo usato per Egidio: «La giovinetta intese, e non osò domandar più in là», PS, IX, 182 203;  «Gertrude non osò proferire una parola», PS, X, 191).  

   Sono, queste, circostanze attenuanti di grande peso, che si aggiungono a quelle più evidenti e già notate; accanto ad esse, però, il narratore ne pone delle altre, che sono invece aggravanti: se Egidio ha osato rivolgerle il discorso, ciò è potuto avvenire anche perché Gertrude «qualche volta […] girandola, per ozio», nel cortiletto del suo quartiere, offrendo quindi il destro e l’occasione al suo tentatore. Anche l’attenuante del bisogno d’amore aveva ricevuto la sua smentita interna, perché non è esatto dire che Gertrude non sia amata da nessuno: il narratore ci aveva detto, infatti, che in convento, è semmai lei a rifiutare l’affetto di quelle «suore che non avevano avuto parte in quegl’intrighi, e che, senza averla desiderata per compagna, l’amavano come tale […]. Ma queste pure le erano odiose» (PS, X, 208).

   Si tratta di una ambivalenza di atteggiamenti, da parte del narratore, che non è certo nuova, e che incrina perfino la celebre apologia della religione cristiana come il mezzo che avrebbe consentito a Gertrude di «essere una monaca santa e contenta, comunque lo fosse divenuta» (PS, X, 207). Ciò non avviene a causa della renitenza di Gertrude, come il narratore non manca di far notare; ma il lettore, a sua volta, non può evitare di domandarsi, proprio stimolato dal narratore, quale aiuto potesse ricevere Gertrude da quella religione che le era stata insegnata, che «non bandiva l’orgoglio, anzi lo santificava» e che quindi, «privata così della sua essenza, non era più la religione, ma una larva come le altre» (PS, IX, 181). Ma il narratore, una volta di più, nello stesso periodo in cui pare pronunciarsi a favore dell’irresponsabilità di Gertrude, inserisce un inciso che segnala la sua correità: «Ma la religione, come l’avevano insegnata alla nostra poveretta, e come essa l’aveva ricevuta, non bandiva l’orgoglio etc.» (PS, IX 181)[32].

   Si potrebbe continuare a lungo su questa falsariga e, come è noto, non solo con Gertrude, ma addirittura col principe padre, anch’egli responsabile e anch’egli necessitato:  ma credo che gli esempi addotti costituiscano forti e ulteriori conferme di ciò che mi pare indubitabile: si tratta di una ambivalenza inscritta nella forma stessa del testo, che va riconosciuta come tale, e di cui andranno semmai indagati il senso e gli effetti. Per quanto riguarda il senso, più e meglio di altri lo ha fatto Girardi, secondo il quale Manzoni, partito dal mistero di una monaca che «non è una monaca come l’altre», «costruisce un altro mistero: quella della responsabilità, della colpevolezza di Gertrude»[33].  Se questo è il senso ultimo della parola del narratore, occorre tuttavia anche indagarne gli effetti sul lettore.

   Nei lettori di professione, l’effetto è stato quello di provocare un dibattito, a volte acceso, tra i fautori della colpevolezza e i fautori dell’innocenza di Gertrude: dibattito tutt’altro che ozioso, perché dà dignità critica ad un dubbio che anche il lettore comune inevitabilmente si pone; e se lo pone proprio perché il narratore, adottando l’atteggiamento duplice che abbiamo visto, sollecita la domanda; nello stesso tempo, e con gli stessi mezzi, però, elude anche la risposta. Come mai? Per tentare di sciogliere il nodo, occorre prima ragionare un poco sullo spinoso e delicato tema della volontà di Gertrude. Spesso la sua vicenda è stata collegata a quella della Piccarda dantesca: accostamento basato su elementi tutto sommato estrinseci (lo stato monacale, la vocazione imposta/contrastata, il ricorso alla reticenza) e in tal senso giustamente criticato[34]. Se ripropongo l’accostamento, è perché la distinzione che pone Beatrice tra volontà assoluta e volontà relativa mi pare spieghi anche l’atteggiamento di Gertrude. Come Piccarda ha ceduto alla violenza per evitare un male maggiore, consentendo dunque non con la volontà assoluta (perché «volontà, se non vuol, non s’ammorza»), ma con la volontà relativa, così anche in Gertrude la volontà relativa di fuggire il male presente (e minore) confligge e vince contro la volontà assoluta di evitare il male futuro e maggiore, la monacazione. Mi pare, tuttavia, che si possa procedere un poco oltre: per il sottile indagatore del «guazzabuglio del cuore umano» gli strumenti aristotelici e tomistici usati da Dante distinguono con una nettezza  eccessiva, che rischia di divenire irrispettosa della complessità psicologica.

   Ritorniamo dunque al testo, che in più occasioni ci offre una Gertrude interiormente scissa, caratterizzata da un’intima schizofrenia che si proietta nei suoi rapporti con il mondo esterno: «Si pentiva poi d’essersi pentita, passando così i giorni e i mesi in un’incessante vicenda di sentimenti contrari» (PS, IX, 181); «Tra queste deplorabili guerricciole con sé e con gli altri»; «indispettita contro gli altri e contro sé stessa» (PS, X, 200). Poche e brevi frasi, in cui però il narratore sintetizza le vicende, altrove minutamente ripercorse, di una personalità dimidiata, in continuo conflitto con sé e con gli altri.

  Una formula pressoché identica era già stata usata da Manzoni a chiusura di un sonetto giovanile recentemente riscoperto e databile, al più tardi, al 1802: «col mondo sempre e con me stesso in guerra». Quattro-cinque anni dopo, la prima lettera a Fauriel e i versi in morte di Imbonati chiariranno i termini di un dissidio interiore, sul modello del quale si plasmano i rapporti tra l’io e il mondo, che aveva trovato la sua più alta espressione poetica nell’Ortis e nei sonetti di Ugo Foscolo: la scissione è tra sentire e meditare, tra cuore e ragione, vissuti come istanze inconciliabili e contraddittorie. Ma si tratta di una scissione che i versi a Imbonati indicano come un prodotto della natura e della gioventù, che va quindi ricomposta («natura e gioventù fa cieco l’ingegno, e serva la ragion del core»); quando e perché ciò avvenga credo di aver dimostrato altrove[35]. Gertrude, giovane e abbandonata ad una sorta di naturalità non guidata dall’educazione, vive la stessa esperienza di frattura dell’io, senza però mai riuscire a ritrovare l’unità: raccontando del suo ultimo e decisivo intervento nella trama dei Promessi sposi, il narratore segnala l’irriducibile dicotomia che persiste in lei tra sentimento e meditazione, tra cuore e ragione, tra la volontà di bene sempre riemergente ed una natura, che ormai si è fatta abito, rivolta al male:

 

Quando Gertrude, che dalla grata la seguiva con l’occhio fisso e torbido, la vide metter piede sulla soglia, come sopraffatta da un sentimento irresistibile, aprì la bocca e disse: - sentite, Lucia!

Questa si voltò, e tornò verso la grata. Ma già un altro pensiero, un pensiero avvezzo a predominare, aveva vinto di nuovo nella mente sciagurata di Gertrude.                                               (PS, XX, 385; corsivo mio).

 

Questa continua alternanza tra decisioni e pentimenti, questa impossibilità di compiere le azioni che pure si sanno giuste e la reciproca coazione a fare ciò che non si vuole, sono elementi che avvicinano Gertrude ad un altro personaggio manzoniano, il conte di Carmagnola. Anch’egli, come Gertrude, cerca di scongiurare il compiersi di un destino che gli è chiaro fin dal principio: la morte dei vili, la nomea di traditore. Tutti i suoi  comportamenti, a partire dal passaggio da Filippo ai Veneziani, mireranno ad evitare sia la taccia di tradimento, sia il carcere e la morte sul patibolo: e proprio ad essa invece lo condurranno.  Nel dialogo con Marco, il conte ribadisce la ineluttabilità del proprio «destino» (la parola compare 8 volte nel Carmagnola: 5 in bocca al conte, 3 a Marco); e teorizza la necessità di secondarlo o addirittura di affrettarlo – pur di non darsi torto, si direbbe: «se è mio destin che un giorno / io sia colto in tai nodi, e vi perisca; / meglio è senza riguardi andargli incontro» (I 390-92), come Gertrude, che alla fine, «stanca di quel lungo strazio, chiese […] d’entrare più presto che fosse possibile nel monastero» (Gir 182). Anche la decisione del conte, come quella di Gertrude, è il risultato di una sconfitta («alfin stanco / di far leggi a me stesso e trasgredirle»: I 384-85) e  non fa che ribadire il dissidio – già classico, ma rimesso in auge dagli empiristi settecenteschi e da Foscolo - tra natura e volontà, tra passione/cuore e ragione, tra sentire e meditare.

 

Troppo è il tuo dir verace: il tuo consiglio

le mille volte a me medesmo io il diedi;

e sempre all’uopo ei mi fuggì di mente.

                                                                                    (I 379-81)

 

Riflessione, questa, che suona come  l’ennesima parafrasi dell’ovidiano «video meliora proboque; / deteriora sequor» e del paolino «Non enim quod volo bonum, hoc facio; sed quod nolo malum, hoc ago», ma ancora senza la via di salvezza rappresentata dalla grazia.[36]

   Il conte di Carmagnola e Gertrude sono due testimonianze di ciò che con l’Agostino dell’ottavo libro delle Confessiones, e guidati dell’esegesi di Roberta De Monticelli, possiamo chiamare la volontà divisa[37]: le «due avverse volontà» che «si combattono» nei due personaggi manzoniani non rappresentano «una lotta fra due opposte menti, fatte di opposte sostanze e originate da opposti principi, una buona e l’altra cattiva»[38], ma una unica volontà, divisa perché non vuole interamente, non vuole con tutta sé stessa: «non ero tutto nel volere e non ero tutto nel non volere»; «e in questo senso – aggiunge Agostino – non ero io a produrla, quella spaccatura, ma il peccato che abitava in me» (Conf. 143). Agostino ci aiuta dunque a capire il caso di Gertrude e di Carmagnola e di tanti eroi classici (e contemporanei) vittime dell’«akrasia, o incontinenza, debolezza del volere»[39], emblematizzata in Medea e nella memorabile formula ovidiana, poi tante volte ripetuta: «video meliora proboque deteriora sequor» (Met. VII, 20-21). «Non è dunque un paradosso volere in parte e in parte non volere, ma è una malattia della mente», la quale deriva «nella storia personale da quella consuetudo alla soddisfazione dei desideri arbitrari che è la schiavitù morale» (Conf. 350), ma che ha una più lontana origine, visto che «non ero io a produrla, quella spaccatura, ma il peccato che abitava in me dalla condanna di un peccato più libero, perché ero figlio di Adamo» (Conf. 143). Se dunque dietro la volontà divisa «si profila il peccato originale», la soluzione non può che essere quella prospettata da Agostino poche pagine prima, in una preghiera-invocazione simile al miserere dantesco, e che come il miserere dantesco ricorre alla citazione di una parola altrui, quella di san Paolo: «Infelice che ero: chi mi avrebbe liberato da questo corpo di morte se non la tua grazia attraverso Gesù Cristo, il nostro signore?» (Conf. 136).

   È la stessa citazione che conclude un passo della seconda Morale Cattolica (1855) in cui Manzoni individua nelle sue formulazioni esemplari – nella cultura classica e in quella cristiana – il dissidio interiore, la cui riconciliazione è frutto della grazia divina, «quella grazia che non è mai dovuta, ma che non è mai negata a chi la chiede con sincero desiderio, e con umile fiducia» (OMF 40):

 

Certo, non era necessaria la rivelazione per farci conoscere che troppo spesso troviamo in noi medesimi, non solo una miserabile fiacchezza, ma una indegna ripugnanza a seguire i dettami della legge morale. E l’apostolo de’ gentili, dicendo: Non fo il bene che voglio, ma quel male che non voglio, quello io fo, ripeteva una verità ovvia anche per loro. Ovidio aveva detto prima di lui: Il core e la mente mi danno opposti consigli: vedo il meglio, l’approvo; e vo dietro al peggio. E quando l’apostolo medesimo esclama: Infelice me! chi mi libererà da questo corpo di morte? si direbbe quasi che non faccia altro, che ripetere il lamento di Socrate. Ma da qual uomo non istruito nella scola di cui Paolo fu così gran discepolo e così gran maestro, poteva uscire quella divina risposta alla desolata domanda, allo sterile lamento: La grazia di Dio per Gesù Cristo Signor nostro?  [inserire le note nella citazione]

                                                                           (MC 1855, cap. III, OMF, pp.  40-41)

 

  

   Questa indagine sulla scissione interiore  di cui è vittima Gertrude è stata forse lunga, ma certamente non inutile: soprattutto perché, accostando il comportamento di Gertrude a quello del conte di Carmagnola, ci ha permesso di motivare meglio, credo, la convinzione, diffusa ma spesso espressa in termini generici, che la vicenda descritta nei capitoli nono e decimo sia una ‘tragedia’. Lo è, anche nel senso preciso del termine: non solo perché descrive un mondo sottoposto al fato (qui incarnato dal padre, dominante e dominato in nome di «una necessità fatale»), ma soprattutto perché in questo mondo Gertrude si comporta come il personaggio tragico per eccellenza (vale a dire, come Edipo, e come il suo ultimo epigono Carmagnola): conscia del destino che la sovrasta, tenta di sfuggirvi; ma tutto ciò che dice/fa la porta, secondo il tipico paradosso tragico, ad affrettarne il compimento. Questo perché la tragedia è il mondo dei correlativi incatenati, di contendenti che vivono solo in quanto e finché sono in relazione agonistica con il proprio nemico: con il risultato, paradossale, appunto, che il personaggio tragico «finisce con il diventargli simile, o comunque con il dirigersi verso ciò che più teme o rifiuta. Tragico è l’abbraccio di contendenti incatenati»[40]. È il caso, oltre che del Carmagnola, anche di Gertrude: la sua contesa sotterranea, mai dichiarata apertamente – cioè, condotta seconda modalità che imitano quelle paterne – con il padre termina con una completa identificazione con l’aggressore, come direbbe Anna Freud[41]. Lo si è già visto nel caso della rivalsa sulla cameriera, lo si può verificare nel suo comportamento in convento; lascio al lettore eventualmente interessato una ricerca più minuziosa, perché a me preme segnalare come questa identificazione agisca anche nel privilegiato ambito della parola, e fin dall’apparizione della signora: infatti, la sua prima domanda a Lucia, «proferita […] con una cert’aria di dubbio maligno» toglie a quest’ultima ogni coraggio a rispondere» (PS, IX, 173). Esattamente come era capitato tante volte a lei Gertrude di fronte a suo padre.

   Un’altra caratteristica del tragico, e forse quella fondamentale, è la insituabilità della colpa. In un mondo dominato dal fato, e da cui è assente il libero arbitrio, non ha significato l’attribuzione di responsabilità, né il concetto stesso di responsabilità. L’atteggiamento ambivalente del narratore, che ora pare sottolineare l’impossibilità per Gertrude di fare diversamente, ora invece insiste sulla sua responsabilità negli atti che la portano al convento, è certamente il risultato di una serie di spinte convergenti, che agiscono sull’autore  e sul narratore. Altrettanto certamente, quell’oscillazione provoca nel lettore la medesima domanda fondamentale: di chi è la colpa di quanto succede a Gertrude? Di Gertrude stessa? di suo padre? di una struttura sociale che li coarta entrambi? Alla luce delle parole del testo, la questione pare irrisolvibile: sicché sorge il dubbio che, ancora una volta, il narratore abbia costruito un tessuto di parole che intendono provocare la domanda ma, nel contempo, metterne in dubbio la legittimità. Di chi è la colpa? non apparterrà questa domanda, al novero delle molte questioni mal poste perché fondate in falso, alla quale bisogna dunque trovare «una di quelle risposte che non dico risolvon le questioni, ma le mutano» (Ps, Introduzione)[42]? Non a caso si tratta della domanda insolubile, posta con forza dalla tragedia classica, alla cui temperie, come è stato più volte notato, sembra appartenere, almeno per alcuni aspetti, la vicenda di Gertrude. Quali trasformazioni Manzoni faccia subire al genere tragico, fino ad approdare a una tragedia cristiana, cioè, forse, a una tragedia senza il tragico, e fino al superamento di essa nel genere romanzo, è ormai abbastanza noto; il fatto che il narratore susciti di nuovo nel lettore la domanda costitutiva del tragico, che ne segnala anche l’insuperabile aporia (insuperabile almeno all’interno del sistema di valori di cui è espressione) nella vicenda di Gertrude non rappresenta un passo indietro, bensì il definitivo assorbimento del genere antico – e pagano per eccellenza – nel genere nuovo, romantico, e quindi cristiano, secondo l’equazione che Manzoni stabilisce nella lettera sul romanticismo. Infatti, la risposta a quella domanda è una risposta che la destruttura e la vanifica. Essa è anticipata in forma diciamo così teorica alle pp. 207-208, dove il narratore, dopo aver sancito il definitivo passaggio («e fu monaca per sempre»), fisico ed esteriore, di Gertrude dallo spazio del fato (la casa paterna) a quello della religione (il convento), mette a nudo l’ennesima contraddizione della volontà divisa: a questo mutamento di paradigma non ne corrisponde, come pure potrebbe, uno interiore. Gertrude resta sempre invischiata nel sistema di valori del passato. Di questo sistema di valori fa appunto parte la ricerca – vana – di un colpevole: «accusava sé di dappocaggine, altri di perfidia». L’abbandono alla religione consentirebbe invece di trasformare i «laberinti» o i «precipizi» senza via d’uscita in un cammino, percorrendo il quale si arriva «lietamente a un lieto fine», quel lieto fine che la tragedia, nella sua immobilità,  non può conoscere. La parola ultima, la risposta definitiva, che dichiara la vanità dell’arrabattarsi di Gertrude (e del lettore complice) intorno al problema della colpa, viene, ancora una volta, da Lucia, così simile e così diversa da Gertrude: assieme a Renzo, in quel controcanto ‘comico’ che è il «sugo della storia», di ogni storia, essa conclude che il problema non è quello antico di trovare  i colpevoli dei guai che ci affliggono, ma di affidarsi e affidarli a Dio: «conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani, e che quando vengono, per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore» (PS, XXXVIII, 745).

   Il mondo tragico fondato sulla colpa e bloccato nella immobilità della colpa viene dissolto dal mondo cristiano illuminato dalla grazia: lo sterile lamento di Socrate, di Ovidio, di Foscolo – e di Carmagnola e di Gertrude – si trasforma nella confessione (confessio peccatum e confessio laudis) di san Paolo, fatta propria da Agostino, da Manzoni – e da Renzo e Lucia. Ma anche da Gertrude, non a caso fuori dai due capitoli ‘tragici’ che ne raccontano la vita: Lucia «seppe dalla vedova che la sciagurata, caduta in sospetto d’atrocissimi fatti, era stata, per ordine del cardinale, trasportata in un monastero di Milano; che lì, dopo molto infuriare e dibattersi, s’era ravveduta, s’era accusata; e che la sua vita attuale era supplizio volontario tale, che nessuno, a meno di non togliergliela, ne avrebbe potuto trovare un più severo» (PS, XXXVII, 743).

 

 

Pierantonio Frare



[1] Le opere manzoniane più frequentemente citate sono indicate con le seguenti sigle:

FL: Fermo e Lucia, in Alessandro Manzoni, I romanzi, a cura di Salvatore Silvano Nigro, Milano, Arnoldo Mondadori, 2002, I.

Lettere: Alessandro Manzoni, Tutte le lettere, a cura di Cesare Arieti, Con un'aggiunta di lettere inedite o disperse a cura di Dante Isella, Adelphi, Milano 1986.

MC: Osservazioni sulla morale cattolica, in OMF.

OMF: Tutte le opere di Alessandro Manzoni, a cura di Alberto Chiari e Fausto Ghisalberti, vol. III. Opere morali e filosofiche, a cura di Fausto Ghisalberti, Milano, Arnoldo Mondadori,1963.

PS: I promessi sposi, in Alessandro Manzoni, I romanzi, a cura di Salvatore Silvano Nigro, Milano, Arnoldo Mondadori, 2002, II.

RF: La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859. Saggio comparativo, Premessa di Sergio Romano, Introduzione, Cronologia e Regesto di Giovanni Bognetti, Testi a cura di Luca Danzi, Edizione nazionale ed europea delle opere di Alessandro Manzoni diretta da Giancarlo Vigorelli, vol. 15, Milano, Centro nazionale studi manzoniani, 2000.

SLI: Scritti linguistici inediti. I. Premessa di Giovanni Nencioni, a cura di Angelo Stella e Maurizio Vitale, Edizione nazionale ed europea delle opere di Alessandro Manzoni diretta da Giancarlo Vigorelli, vol. 17, Milano, Centro nazionale studi manzoniani, 2002; Scritti linguistici inediti. II, a cura di Angelo Stella e Maurizio Vitale, Edizione nazionale ed europea delle opere di Alessandro Manzoni diretta da Giancarlo Vigorelli, vol. 18, Milano, Centro nazionale studi manzoniani, 2000.

[2] George Steiner, Le Antigoni (1984), Torino, Garzanti, 1995, p. 107.

[3] Gianfranco Ravasi, In principio erat Verbum. Dalle parole alla Parola, in Daniele Del Giudice, Umberto Eco, Gianfranco Ravasi, Nel segno della parola, a cura e con un saggio di Ivano Dionigi, Milano, Rizzoli (Bur), 2005, pp. 58-59.

[4] Giovanni Nencioni, La lingua di Manzoni, Bologna, il Mulino, 1993, pp. 112-113.

[5] Ha detto bene Giorgio De Rienzo, L’avventura della parola nei «Promessi sposi», Roma, Bonacci, 1980, p. 19: «Lo scrivere per Manzoni diventa dunque, prima di ogni altra cosa, opera di restaurazione della credibilità della parola». Si tratta dello stesso obiettivo che, come abbiamo visto, persegue il Dante autore con la protratta riflessione sulla parola consegnata ai primi due canti della Commedia.

[6] Alessandro MANZONI, Del romanzo storico e, in genere, de' componimenti misti di storia e d'invenzione, a cura di Folco PORTINARI Milano, Edizione nazionale ed europea delle opere di Alessandro Manzoni diretta da Giancarlo Vigorelli,  Milano, Centro nazionale studi manzoniani, 2000, p. 19. Si accosti questo brano alla celebrazione di Vico, che ancora mette l’accento sul potere, se non rivelativo, certamente confermativo della parola rispetto al pensiero: «che fascio di verità presenta, in una di quelle formole splendide e potenti, che sono come la ricompensa del genio che ha lungamente meditato!« (Discorso sui Longobardi, in Tutte le opere, IV, 41).

[7] Alessandro MANZONI, Scritti linguistici inediti. I, a cura di Angelo STELLA – Maurizio VITALE, Edizione nazionale ed europea delle opere di Alessandro Manzoni diretta da Giancarlo Vigorelli,  Milano, Centro Nazionale Studi Manzoniani,  2000, p. 135. Prefazione……

[8] Lia Formigari, La parola fra potere e consenso. Teorie linguistiche e progetti di egemonia in Italia da Genovesi a Gramsci, in Società Filosofica Italiana, Linguaggio persuasione verità, Padova, Cedam, 1984, pp. 55-66: 57.

[9] Alessandro Manzoni, Lettera a Cousin, in Dell’invenzione e altri scritti filosofici, Premessa di Carlo Carena, Introduzione e note di Umberto Muratore, Testi a cura di Massimo Castoldi. In appendice: Le stresiane di Ruggiero Bonghi, Milano, Centro nazionale studi manzoniani, 2004, p. 20.

[10] Innanzitutto, movimento della mente, come è detto nella famosa lettera a Rosmini del 31 luglio 1831: «Le dirò o Le ridirò ch’io vo sospettando, arzigogolando, chimerizzando che la parola, con quella virtà sui generis con la quale move la nostra mente ad atti che senza questo mezzo essa non potrebbe produrre, la porti anche a quel primo e universale concetto dell’ente»: MR, 40.

[11] Sant’Agostino, L’istruzione cristiana, a cura di Manlio Simonetti, Verona, Fondazione Lorenzo Valla / Arnoldo Mondadori editore, 1994, p. 344 (IV xxiv 14-26): «e allora ritenni di aver ottenuto qualche risultato non quando li sentii acclamare ma quando li vidi piangere: perché con le acclamazioni davano a vedere di imparare e trarre diletto, ma con le lacrime indicavano che erano stati convinti […]. E sono molte altre le esperienze dalle quali abbiamo appreso che la gente manifesta l’effetto che su di essa ha esercitato un discorso sapiente pronunciato in stile elevato non tanto con grida quanto con gemiti, talvolta anche con lacrime e infine col mutamento del modo di vita».

[12] Si legga l’intero passo: «Ebbene l'invenzione del poeta è la scoperta di ciò che si svela nella profondità della parola. Non è forse un “cammino verso la parola”, per dirla con Heidegger, un ritrovamento drammatico del senso perduto o violentemente frustrato di alcune parole, ciò che costituisce, ad esempio, nella non importanza del suo 'vero storico', l'autentica verità poetica della conversione dell'Innominato nei Promessi Sposi??  “Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!” [...] Sono le parole di Lucia angosciata che risvegliano la tempesta nell'animo del suo persecutore. “Perdonatemi? io domandar perdono? a una donna? io… Ah, eppure? se una parola tale mi potesse far bene, levarmi d’addosso un po’ di questa diavoleria, la direi; eh! sento che la direi”; “Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?”. Il compito del poeta è di evocare dall’oblio i sensi della nostra esistenza, che giacciono nascosti o repressi nell’infinita ricchezza del linguaggio di cui siamo destinatari» (Pietro Prini, L'ermeneutica della parola nel dialogo manzoniano «Dell'invenzione», «Rivista di estetica», xxvi, 24, 1986, pp. 37-53: 49-50).

[13] Giovanni Getto, Letture manzoniane, Firenze, Sansoni, 1964, p. 171.

[14] Conosco una sola eccezione: Silvano Petrosino, Gertrude: avrei dovuto, in Visione e desiderio. Il tempo dell’assenso, Milano, Jaca book, 1992, pp. 45-68: 62.

[15] «Si può individuare in molti delinquenti, specialmente quando si tratta di giovani, un potente senso di colpa che preesisteva all’atto criminoso, e che quindi di questo atto non né l’effetto bensì la causa: come se il poter collegare il senso di colpa inconscio a qualche cosa di reale e attuale fosse avvertito da costoro come un sollievo»: Sigmund Freud, L’io e l’es, in Opere. 1917-1923. L’io e l’es e altri scritti, edizione diretta da Cesare Musatti, Torino, Boringhieri, 1977, pp. 470-520: 514.

[16] Roland Barthes, Lezione, p.???

[17] Illuminante la nota di Nigro, in M, I promessi sposi (1827), cit. p. 837: «”Des le ventre de sa mère il est destiné a l’autel”. E’ Bourdaluoe, nel sermone Sur le devoirs des pères par rapport à la vocation de leurs enfans (Œuvres, I, p. 481); che Isaia cita (49, 1: «Dominus ab utero vocavit me, de ventre matris meae… »), per far denuncia della profanazione della «chiamata» di Dio. Per colpire la bestemmia dei padri, che a Dio pretendono di sostituirsi: imponendo una vocazione». A Isaia si può utilmente aggiungere Geremia, 1,5: «priusquam te formarem in utero novi te et antequam exiret de vulva sanctificavi te prophetam gentibus dedi te».

[18] Quest’ultima osservazione  si trova già in Alessandro Manzoni, I Promessi sposi, a cura di Ezio Raimondi e Luciano Bottoni, Milano, Principato, 1988, p. 227. Getto, Letture manzoniane, cit., p. 180 aveva segnalato, senza entrare in dettaglio, che è solo nel colloquio con il vicario che «Per la prima volta ascoltiamo la voce di Gertrude. E' infatti questo l'unico dialogo della sua storia. Nelle altre pagine le sue parole o sono semplici echi della voce del padre o sono moti interiori. Per Gertrude non c'è possibilità di dialogo. E l'unico dialogo, quello imposto dalle leggi canoniche, si risolve fatalmente in un tradimento di se stessa».

[19] Sul tema della schiavitù/libertà in Gertrude e nell’innominato, si veda Pierantonio Frare…

[20]  John L. Austin, Quando dire è fare (How to do Things with Words, 1962), trad. it. di Margherita Gentile e Marina Sbisà, Torino, Marietti, 1974.

[21] Giorgio De Rienzo, L’avventura della parola…, cit., p. 58.

[22] Alessandro Manzoni, Scritti linguistici inediti. I, a cura di Angelo Stella e Maurizio Vitale, Edizione nazionale ed europea delle opere di Alessandro Manzoni diretta da Giancarlo Vigorelli,  Milano Centro Nazionale Studi Manzoniani, 2000, p. 117 (a proposito di una citazione biblica addotta da Voltaire).

[23] M, Lettera a Victor Cousin, cit., p. 23.

[24] Alessandro Manzoni, I Promessi sposi, a cura di Ezio Raimondi e Luciano Bottoni, Milano, Principato, 1988, p. 233. Ma va letta per intero anche la bella nota di Repossi-Stella: «“La sventurata rispose” ottonario non meno 'terribile' (Angelini) e speculare di “e fu monaca per sempre”, è una frase cristallizzata da tante letture emozionate, ma deve essere pensata dal punto di vista del Manzoni, cioè di come si pone l'uomo di fronte a Dio. Nella relazione con Egidio, Gertrude attua una rivalsa contro una violenza, ma perde la vera libertà, che, per il cristiano M., è libertà dal peccato (Rm 6, 18: “Liberati autem a peccato servi facti estis iustitiae”). Quel “rispose” è l'attuazione della responsabilità individuale, che condizionamento e violenza possono turbare, ma non eliminare. Un lettore non professionale, ma agguerrito di teologia e letteratura, il cardinale Pietro Maffi (Conversazioni manzoniane col mio clero, II, Torino 1924, p. 57), collega l'espressione a “respondit mulier” di Gn 3, 2. Una conferma di questa interpretazione, certo più 'manzoniana' che non gli abituali collegamenti ai versi danteschi (Francesca, Pia, Piccarda), viene con sorprendente evidenza da una frase contigua di FL: “L'albero della scienza aveva maturato un frutto amaro e schifoso, ma Geltrude aveva la passione nell'animo e il serpente al fianco; e lo colse”» (Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi. Storia della colonna infame, a cura di Angelo Stella e Cesare Repossi, Torino, Einaudi/Gallimard, 1995, p. 774).

[25] Manzoni, I promessi sposi, a cura di Raimondi-Bottoni, cit., p. 233.

[26] Umberto Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Milano, Bompiani, 1994, p. 66: «“Che fare?” Notate che questa domanda è direttamente indirizzata non solo a don Abbondio, ma al lettore. Manzoni è maestro nel mescolare la sua narrazione a subitanei, sornioni appelli ai suoi lettori, e questo è tra i meno sornioni».

[27] Si veda la perspicace analisi di Angelo R. Pupino, Manzoni: religione e romanzo, Roma, Salerno editrice, 2005, pp. 57-58.

[28] Il confronto tra Gertrude e Lucia è un topos della critica manzoniana. Mi limito a rimandare all’ultimo significativo svolgimento, quello di Pupino, Manzoni. Religione e romanzo, cit.,

[29] La brillante trouvaille è di Gian Piero Maragoni, Poesia dell’esattezza. Ragguaglio su storia e geografia dei τόποι, Venezia, s. e., 2003, pp. 22-25.

[30]Claudio SCARPATI, Pietà e terrore nell'Adelchi, in Manzoni tra due secoli, Milano, Vita e pensiero, 1986; ora in Id., Invenzione e scrittura. Saggi di letteratura italiana, Milano, Vita e pensiero, 2005, p. 271. Giorgio Barberi Squarotti, Teorie e prove dello stile del Manzoni, Milano, Silva, 1965, p. 10.

[31] Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, a cura di Enzo Noè Girardi, Torino, Petrini, 1982, p. 170.

[32] Opportuno e chiarificatore il confronto istituito da Giovanni Negri con la vicenda simile e opposta del card. Federigo: le distinzioni usate per Gertrude «si sarebbero volute usare dagl’istitutori anche col Borromeo, nel collegio di Pavia, per farlo figurare come il principe del luogo. Senonché il Borromeo, tra gli agi e le pompe, aveva posto mente, fin dalla puerizia, a quelle sante parole d’“annegazione” e d’ “umiltà”, a quelle sante massime intorno alla “vanità de’ piaceri”, alla “ingiustizia dell’orgoglio”, alla “vera dignità” e ai “veri beni”: le aveva sentite nel cuore: sebbene d’indole viva e collerica, le aveva gustate, le aveva prese per norma de’ suoi pensieri e delle sue azioni» (Sui «Promessi sposi» di Alessandro Manzoni. Commenti critici estetici e biblici, premessovi uno studio su l’opinione del Manzoni e quella del Fogazzaro intorno all’amore, parte I, Milano, Scuola Tip. Salesiana, 1903, p. 186).

[33]  Manzoni, I Promessi Sposi, a cura di Girardi, cit., p. 168. Va anche segnalata la robusta difesa, fatta in nome dell’autonomia del testo letterario, ad una diffusa obiezione: «Né vale la risposta che si  può ricavare da altri testi – si tratti della Colonna Infame o della Morale Cattolica – dove il Manzoni da moralista si pronuncia per la responsabilità del singolo anche nelle condizioni storiche più avverse: perché appunto non è il pensiero del Manzoni che ci interessa, ma il significato obbiettivo di questa sua pagina» (ibid.).

[34] Cfr. il commento di Stella-Repossi citato alla nota 18.

[35] Pierantonio Frare, La scrittura dell’inquietudine. Saggio su Alessandro Manzoni, Firenze, Olschki, 2006, cap. I.

[36] Cfr. Giuseppe Langella, La tragedia della natura lapsa. Sul primo «Carmagnola», «Italianistica», XXXIII 1, gen.-apr. 2004, pp. 129-32.

[37] Roberta De Monticelli, L’allegria della mente. Dialogando con Agostino, Milano, Bruno Mondadori, 2004, in particolare pp. 139-46

[38] «Iam ergo non dicant, cum duas voluntates in homine uno adversari sibi sentiunt, duas contrarias mentes de duabus contrariis substantiis et de duobus contrariis principis contendere, unam bonam, altera malam»: Agostino, Le confessioni, Edizione con testo a fronte, a cura di M. Bettetini. Traduzione di C. Carena, Torino, Einaudi, 2000, p. 267 [VIII 10, 24]; la traduzione italiana che uso nel testo, indicandone tra parentesi la pagina, è però quella di Roberta De Monticelli (Agostino, Confessioni, Introduzione di S. Pittaluga. Saggio sull’opera, traduzione e commento di R. De Monticelli, Milano, Garzanti, 1999 [19891]).

[39] De Monticelli, L’allegria, etc., cit., p. 145.

[40] Giovanni Bottiroli, Retorica. L’intelligenza figurale nell’arte e nella filosofia, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, p. 247.

[41] Si veda la sintetica definizione del processo offerta da Laplanche, Pontalis, Enciclopedia della psicanalisi, cit., p. 218: «il soggetto, d fronte a un pericolo esterno (rappresentato tipicamente da una critica proveniente da un’autorità), si identifica con il suo aggressore, assumendo sia la stessa funzione aggressiva, sia imitando fisicamente o moralmente la persona dell’aggressore, sia adottando taluni simboli di potenza che lo contraddistinguono».

[42] Su questa modalità, che ritengo fondamentale, del pensiero e della scrittura manzoniani, rimando a Pierantonio Frare, Una struttura in movimento: sulla forma artistica dei «Promessi sposi», «The Italianist», 16, 1996, pp. 61-75, poi confluito, con sviluppi e approfondimenti, in La scrittura dell’inquietudine, cit., cap. vi.