PIERANTONIO FRARE, TEORIA E STORIA DEI GENERI E DELLE FORME LETTERARIE, SSIS

 

Testi per Modulo2: Forme e contenuti della tragedia dal Cinquecento a Manzoni (e oltre)

 

Tragedia dunque è mimesi di un’azione seria e compiuta in se stessa, con una certa estensione; in un linguaggio abbellito di varie specie di abbellimenti, ma ciascuno a suo luogo nelle parti diverse; in forma drammatica e non narrativa; la quale, mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e di purificare l’animo da siffatte passioni.

                                                                                                    Aristotele, Poetica, 6, 1449b

 

Egli è chiaro, prima di tutto, che non bisogna siano rappresentati su la scena, in atto di passare dalla felicità alla infelicità, uomini dabbene, non potendo ciò ispirar terrore né pietà[1] ma solo ripugnanza; secondo, che non vi siano rappresentati, in atto di passare dalla felicità alla infelicità, uomini malvagi, essendo questa, fra tutte, la cosa più aliena dallo spirito tragico, in quanto non possiede nessuno dei requisiti di cui la tragedia bisogna, e difatti né soddisfa il pubblico, né suscita alcun sentimento di pietà né di terrore; e finalmente, terzo, neanche bisogna ch’ella rappresenti uomini estremamente malvagi cadere dalla felicità nella infelicità, perché, se anche una composizione siffatta potrebbe soddisfare per un certo rispetto il gusto del pubblico, non potrebbe però suscitare nessun sentimento né di pietà né di terrore. Si prova pietà per una persona la quale sia immeritamente colpita da sventura, si prova terrore per una persona la quale [, egualmente colpita da sventura] abbia parecchi punti di somiglianza con noi; e insomma, pietà per l’innocente, terrore per chi ci somiglia: cosicché, dunque, casi come questo non potranno aver mai niente di pietoso né di terribile. Resta, fra queste due vie estreme, la via di mezzo. Sarà cioè buon personaggio da tragedia colui il quale, senza essersi particolarmente distinto per sua virtù o sentimenti di giustizia, neanche sia tale da cadere in disavventura a cagione di sua malvagità o scelleraggine, bensì a cagione soltanto di qualche errore: sul tipo insomma di coloro che, come Edipo, Tieste e altri ben noti personaggi nati da simili famiglie, [finirono sventuratissimi, mentre dapprima] erano in grande reputazione e prosperità.                                               (Aristotele, Poetica, 13 1453a)

 

 

Emanuele Tesauro, Edipo, a cura di Carlo Ossola. Commento e note di Paolo Getrevi, Marsilio, Venezia, 1987:

 

Antigone                      Tu non sei reo:

[...]

            L'anima del delitto è un mal talento

            del conosciuto mal: chi nol conosce,

            benché l'opra sia ingiusta, non è ingiusto.

            [...]

                                     E se per caso

            nel visco onde fuggivi al fin cadesti:

            dèi chiamarlo sciagura, e non delitto.

            O se pur è delitto, egli è delitto,

            non di te, ch'il fuggisti, ma del Fato,

            il qual pria che nascesti il vide, e 'l volle.

            Poiché potendo favellarti aperto,

            in cavilloso stile ascose il laccio.                                                                       (V 331-47)

 

Tiresia  Ospite, tu t'inganni: un innocente

           mai fu dal ciel punito. Il re che piangi

           contaminò le nozze e 'l padre uccise.

Oratore  Ma in buona fede.

Tiresia                                E come in buona fede

           dopo un delfico avviso?

Oratore                                      Incontanente

           di Corinto fuggì.

Tiresia                            Non dalle nozze.

Oratore  E chi le avria credute incestuose?         

Tiresia   Dovea sempre temer ciò ch'era incerto.

            Creder madre ogni moglie, e creder padre

            anco un ladron, senza macchiar la mazza

            di sconosciuto sangue entro alle selve;

            ed arrischiarsi a marital legame.

            Questo non è fuggir; ma farsi 'ncontro

             al periglio evidente: e chi al periglio

             premostrato si espon, non è innocente.                                                                     (V 159-73)

                     

 

Clitennestra, ripiena il cuore d'una passione iniqua ma smisurata, potrà forse in un certo aspetto commuovere chi si presterà alquanto a quella favolosa forza del destin dei pagani, e alle orribili passioni quasi inspirate dai Numi nel cuore di tutti gli Atridi [...]. Ma chi giudicherà Clitennestra col semplice lume di natura, e colle facoltà intellettuali e sensitive del cuore umano, sarà forse a diritto nauseato nel vedere una matrona rimbambita per un suo pazzo amore, tradire il più gran re della Grecia, i suoi figli, e se stessa per un Egisto.

[…]

Egisto, poi, carattere orribile per se stesso, non può riuscir tollerabile se non presso a quei soli, che molto concedono agli odj favolosi de' tiesti ed atrei.

                                                                                           Vittorio Alfieri, Parere dell’autore sull’«Agamennone»

 

E certo, se Mirra facesse all'amore col padre, e cercasse, come Fedra fa col figliastro, di trarlo ad amarla, Mirra farebbe nausea e raccapriccio: ma, quanta sia la modestia, l'innocenza di cuore, e la forza di carattere in questa Mirra, ciascuno potrà giudicare per se stessa, vedendola. Quindi, se lo spettatore vorrà pur concedere alquanto a quella imperiosa forza del Fato, a cui concedeano pur tanto gli antichi, io spero ch'egli perverrà a compatire, amare ed appassionarsi non poco per Mirra.

[…]

Posto adunque che Mirra, in questa tragedia, appaja, come dee apparire, più innocente assai che colpevole; poiché quel che in essa è di reo non è per dir così niente suo, in vece che tutta la virtù e forza per nascondere estirpare e incrudelire contra la sua illecita passione anco a costo della propria vita, non può negarsi che ciò sia tutto ben suo; ciò posto, io dico, che non so trovare un personaggio più tragico di questo per noi, né più continuamente atto a rattemprare sempre con la pietà l'orrore ch'ella ispira.

                                                                                                    Vittorio Alfieri, Parere dell’autore sulla «Mirra»

 

j’espère achever une tragédie que j’ai commencé avec beaucoup d’ardeur et d’espoir de faire au moins une chose neuve chez nous. J’ai mon plan, j’ai partagé mon action […]. Le sujet est la mort de François Carmagnola; si vous voulez vous rappeller son histoire avec détail, voyez-la à la fin du huitième volume des Rép[ubbliques] Italiennes del Sismondi. L’action commence  par la déclaration de guerre des Vénitiens au duc de Milan (page 378) et se termine par la mort de Carmagnola qui est décrite à la fin du volume. Elle tient un espace de six ans; c’est un fort soufflet à la règle de l’unité de tems, mais ce n’est pas vous qui en serez scandalisé.

Après avoir bien lu Shakespeare, et quelque chose de ce qu’on a écrit dans ce dernieres tems sur le Théâtre, et apres y avoir songé, mes Idées se sont bien changées sur certaines réputationes, je n’ose pas dire davantage, car je veux tout-de-bon faire une Tragédie, et il n’y a rien de si ridicule que de médire de ceux qui en ont fait, et qui passent pour des maîtres de l’art. Mais que de peine on a pris souvent pour faire mal! pour écarter des choses belles et grandes qui se présentait naturellement, et qui n’avait d’autre inconvénient que de ne pas être conformes au systême étroit et artificiel de l’auteur! Quelle étude pour ne faire parler les hommes ni comme ils parlent ordinairement, ni comme ils pourraient parler, pour écarter la prose et la poésie, et pour y substituer le langage rhétorique le plus froid et le moins adapté à produire des mouvements sympathiques!

Alessandro Manzoni, Tutte le lettere, a cura di Cesare Arieti. Con un’aggiunta di lettere inedite o disperse a cura di Dante Isella, Milano, Adelphi, 1986, 157-58; a Claude Fauriel, 25 marzo 1816

 

J’ai en main un sujet de tragédie auquel je vais me mettre tout-de-suite pour l’achever dans l’hyver, si je peux; car Adolphe, que vous m’aviez proposé, je l’ajourne, parce que je ne pourais le traiter, que d’une manière à la quelle le public serait trop peu accoutumé, et contre la quelle il aurait même trop de préventions. Celui que je veux entreprendre à présent est beaucoup plus populaire, c’est la chute du Royaume des Longobards, ou pour mieux dire de la dynastie longobarde et son extinction dans la personne d’Adelgise dernier roi avec Didier son père.

Manzoni, Lettere, cit., p. 214; a Claude Fauriel, 17 ottobre 1820

 

je corrige actuellement Adelchi et le discours pour le livrer à la presse, je rédigerai après un autre discours, que je médite depuis long-temps, sur l’influence morale de la tragédie, et après je me mettrai à mon roman, ou à une tragédie de Spartacus, selon que je me trouverai plus disposé à l’un de ces deus travaux.                                                       Manzoni, Lettere, cit., p. 249; a Claude Fauriel, 3 novembre 1821

 

[I] drammatici francesi […]

i fanno simpatizzare il lettore colle passioni dei personaggi, o lo fanno complice.

Si può sentire separatamente dai personaggi e dei personaggi, e farlo giudice.

Esempio insigne Shakespear                                  

(Alessandro Manzoni, Traccia del discorso sulla moralità delle opere drammatiche, in Scritti linguistici e letterari, a cura di Carla Riccardi e Biancamaria Travi, Milano, Arnoldo Mondadori, 1991, pp. 55-56)

 

Nella Scena prima dell’Atto 4° del Guglielmo Tell, vi è un esempio del pericolo di far partecipare lo spettatore alla passione del personaggio, tanto più che questa passione sembra giusta mentre è ira contro uno scellerato. Un pescatore osserva con un suo figliuoletto la barca dove è Gessler con Tell agitata dai venti: Giudizj di Dio! Sì è desso, il Governatore che là è tratto. Egli naviga là, e conduce seco il suo delitto. La mano del vendicatore lo ha ben tosto ritrovato: ora egli riconosce un potente signore sopra di sé. Queste onde non… Queste rupi non piegano le loro teste dinnanzi al suo cappello. E aggiunge: O Fanciullo non pregare, non istrapparlo dal braccio del Giudice. Il fanciullo: Io non prego pel Governatore, io prego per Tell che è nella barca con lui. Questo sentimento orribile è espresso senza disapprovazione: né io voglio credere che uscisse dal cuore di Schiller, ma egli avrà voluto rappresentare al vivo l’abominio di quegli uomini per Gessler. Ma egli ha errato mettendosi a rischio di far sentire lo spettatore  come il suo personaggio. Del resto mi sembra, che poiché egli ha immaginato di far pregare il fanciullo, ha perduto l’occasione di una scena bellissima. Se il Padre invece (il che è in natura d’un uomo pio e retto) dicesse al figlio di pregar anche per Gessler che commozione non ecciterebbe? Quanti sentimenti non risveglierebbe di quella Religione che insegna a chi l’ascolta di pregare per Gessler e per Tell, per l’oppresso e per l’oppressore, a riguardare gli uomini i più scellerati come  creati anch’essi per la virtù, come capaci di emendarsi e di seguirla, e se stesso come capace dei più grandi errori qualora Dio lo abbandoni, che insegna  a riguardar tutti gli uomini come fratelli e se gl’iniqui vogliono rompere questo santo vincolo ci impone di tenerci stretti a loro con quella carità che ha per fondamento non il merito loro ma i precetti e gli esempj di Gesù Cristo.

Quanto più Gessler è stato dipinto scellerato più pericoloso è questo sentimento perché lo spettatore è disposto a riceverlo. Certo c’è una simpatia in ciò, ma dev’egli il poeta secondare questa inclinazione nostra? No certamente, e se il diletto è il fine della poesia, io m’immagino che dall’aver vinto questo impeto d’odio e dall’avere accolti in sé i sentimenti sublimi che ho accennato poco sopra ne debba nascere un vivo, soave, ed alto piacere, e questo deve il poeta trasfondere allo spettatore. Questi può avere piaceri viziosi e piaceri virtuosi: i secondi sono i più poetici.                                      (ivi, pp. 58-59)

 

Cette unité est encore plus marquée et plus facile à saisir , lorsqu’entre plusieurs faits liés entre eux il se trouve un événement principal, autour duquel tous les autres viennent se grouper, comme moyens ou comme obstacles; un événement qui se présente quelquefois comme l'accomplissement des desseins des hommes, quelquefois, au contraire, comme un coup de la Providence qui les anéantit; comme un terme signalé ou entrevu de loin, que l'on voulait éviter, et vers lequel on se précipite par le chemin même où l'on s'était jeté pour courir au but opposé.

         Manzoni, Lettre à M.r *** sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie, in Scritti linguistici e letterari, cit., pp. 78-79

 

La pièce commence au moment où les desseins de ce deux personnages [Richard e Bolingbroke] se trouvent dans une opposition ouverte, où le roi, ayant counçu une véritable inquiétude des projets ambitieux de son cousin, se jette, pour les déjouer, dans des mésures qui finissent par en amener l'exécution.                                                                                                                                Ivi, p. 115

 

la mia vita io voglio dar, ma in campo,

per nobil causa, e con  onor, non preso

nella rete dei vili.                                                                                          (Il conte di Carmagnola, I 125-27)

 

                                 Un altro campo 

correr degg'io, dove in periglio sono

di  riportar,  forza è pur dirlo, il brutto

nome d'ingrato,  l'insoffribil nome

di traditor.                                                                                                                           (ivi, I 99-103)

 

Troppo è il tuo dir verace: il tuo consiglio

le mille volte a me medesmo io il diedi;

e sempre all’uopo ei mi fuggì di mente.                                                                               (ivi, I 379-81)

 

                                    Tu intanto

se cosa odi di me che ti dispiaccia,

l’indole mia ne incolpa, un improvviso

impeto primo, ma non mai l’obblio 

di tue parole                                                                                                                          (ivi, I 434-38)

 

                                      Ma… ripugnante

vo dunque incontro al mio destin, forzato,

siccome un reo, spargendo in sulla via

voti impotenti e misere querele?                                                                                              (V 236-39)

 

                                       ma quella via

su cui ci pose  il  ciel, correrla  intera

convien, qual ch'ella sia,  fino  all'estremo.                                                                  (Adelchi, IV 103-105)

 

il Dio di tutti, il Dio che i giuri ascolta

[…]

                  in cor del reo sovente

mette una smania, che alla pena incontro

correr lo fa.                                                                                                                         (ivi, I 340-46)

 

Il mio cor m’ange, Anfrido: ei mi comanda

alte e nobili cose; e la fortuna

mi condanna ad inique; e strascinato

vo per la via ch’io non mi scelsi.                                                                                         (ivi, III 84-87)

 

Tutto? Ah sciagurato! Perché menti a te stesso?

[…]

E affrontar Dio potresti? e dirgli: io vengo

senza aspettar che tu mi chiami; il posto

che m’assegnasti, era difficil troppo; e l’ho deserto!                                                               (ivi, V 75-84)

 

                                    loco a gentile,

ad innocente opra non v’è. Non resta

che far torto, o patirlo.                                                                                                         (ivi, V 352-54)

 

                   Il tuo nemico

prega per te morendo.                                                                                                         (ivi, V 392-93)

 

Ancor mezzo affannato e tutto sottosopra, ringraziava intanto alla meglio in cuor suo la Provvidenza, d’essere uscito d’un tal frangente, senza ricever male, né farne.                                               (ps, xxxiv)

 

«gli uni e gli altri [i bravi rimasti con l’innominato, nativi e forestieri], quasi ribenedetti nello stesso tempo che il loro padrone, se la passavano, al par di lui, senza fare né ricever torto, inermi e rispettati.

                                                                                                                                                 (ps, xxix)

 

 

video meliora proboque; / deteriora sequor»

 

Non enim quod volo bonum, hoc facio; sed quod nolo malum, hoc ago

 

 

 

Bibliografia di riferimento

Luigi DERLA, Manzoni: il contenuto e la forma della tragedia, "Studium", 2, 1983, pp. 257-71.

Gilberto LONARDI, Ermengarda e il pirata. Manzoni, dramma epico, melodramma, il Mulino, Bologna 1991.

Jurij M. LOTMAN, Il teatro e la teatralità nel sistema della cultura all'inizio del XIX secolo [1973], in Da Rousseau a Tolstoj, il Mulino, Bologna 1984, pp. 137-64.

Claudio SCARPATI, Pietà e terrore nell'"Adelchi", in AA. VV., Manzoni tra due secoli, Vita e Pensiero, Milano 1986, pp. 77-99.



[1] Che sono i sentimenti che deve provocare la tragedia, per poi raggiungere la catarsi